“Are you going to say that your body is trash if you get bitten by a dog? If a lunatic punches you, will that spot became dirty?”
Lee Jang-hyun
“Diresti che il tuo corpo è spazzatura se venissi morsa da un cane? Se un pazzo ti dà un pugno, quel punto diventa sporco?” Sembrano frasi banali, semplici, eppure se inserite in un determinato contesto e messe a confronto con quest’affermazione “una sola goccia di inchiostro è abbastanza per sporcare l’acqua pulita” (“A single drop of ink is enough to male clean water dirty”) assumono un altro significato e diventano il punto focale della seconda parte di My Dearest, incentrata sulle donne come vittime della guerra, perché è facile distinguere i vinti dai vincitori, più difficile contare il numero effettivo dei morti e dei prigionieri ma è assolutamente impossibile capire quante e quali sono le vittime di violenza; un tema che è ancora oggi più che mai attuale, sia nei paesi in stato di guerra che nei paesi in tempo di pace.
Se, nella prima stagione, abbiamo avuto un primo accenno alla reazione della società Joseon nei confronti delle donne che venivano anche solo in contatto con l’invasore (i Manciù, guidati dalla dinastia Qing), con una splendida Gil-chae (Ahn Eun-jin) che uccide un uomo pur di salvare l’amica Eun-ae (Lee Da-in), in una replica del famoso episodio di Rossella e Melania contro il soldato Yankee in Via Col Vento, anche in questo secondo capitolo ci vengono risparmiate scene di violenza fisica cruda ma non quella morale, quella dei pregiudizi e preconcetti, quella in cui uomini e donne -senza distinzione di classe sociale- condannano chi ha subito violenza, senza possibilità di appello.
Ma, tra questi, spicca la figura di Lee Jang-hyun (Namkoong Min) che è il primo a schierarsi a favore delle donne, a pronunciare quella splendida frase che ho usato in apertura e che dovrebbe esser un manifesto per ogni vittima di violenza, capace di scardinare i princìpi del tempo anche in uomini come Goo Yang-chun (uno straordinario Choi Moo-sung, Weighlifting fairy Kim Bok-joo).
Forse il suo personaggio è anacronistico, troppo moderno per quel tempo, troppo moderno anche per i canoni attuali perché, non prendiamoci in giro, ancora oggi è facile sentire espressioni come “se l’è andata a cercare andando in giro vestita così, truccata in quel modo, uscendo la sera, andando a lavoro, fermandosi nel parcheggio”, è sempre colpa della vittima che finisce per sentirsi sporca dentro e preferire morire che denunciare e affrontare un processo, camminando a testa alta, cercando di non sentire i commenti, di non vedere i volti di chi la giudica colpevole e chi la condanna per esser sopravvissuta e talvolta, tra questi, anche i volti dei propri familiari.
In contrapposizione abbiamo Nam Yeon-joon (Lee Hak-joo, My Name), lo studioso di confucianesimo, presso la scuola del Maestro Jang Cheol (Moon Sung-geun). Quello che sulla carta dovrebbe esser l’anima pura e nobile della storia ma, di fatto, rappresenta l’uomo che si nasconde dietro i princìpi arcaici, quelli per cui se una donna Joseon ha anche solo sfiorato la mano di un manciuriano è stata contaminata e dovrebbe preferire la morte che continuare a vivere con questa vergogna. Il semplice esser entrata in contatto diventa una goccia di inchiostro che sporca l’anima della donna, motivo per giustificare il divorzio richiesto da un marito, anzi dovrebbe esser la consorte stessa a lasciare libero il marito di rifarsi una vita mentre lei deve rassegnarsi a vivere nell’ombra o sparire completamente.
Non è facile cercare di non fare grossi spoilers nello scrivere la recensione, premetto che la storia in questa seconda parte prende le distanze da Via Col Vento e forse è anche per questo che ha fatto fatica ad ingranare nei primi episodi, al punto che sono arrivata alla conclusione che forse sarebbe stata meglio una stagione unica composta da soli 16 episodi, tagliando le prime puntate della seconda parte. Capisco che siano funzionali alla storia ma ci sono parecchi momenti che portano lo spettatore a dire “forse è un po’ troppo”. Gil-chae affronta mille peripezie, tra cui finire in un mercato di schiavi ed in balìa di una principessa manciuriana (Lee Chung-ah, Celebrity) completamente folle ed innamorata di Jang-hyun, prima di incontrare e riunirsi nuovamente all’uomo dei suoi sogni e, soprattutto, di sentirsi sua pari e di esser definita la sua casa (“she is my hometown”, “lei è la mia città natale”).
In questa seconda parte ritroviamo i personaggi del primo capitolo come il cantante pansori che cerca nuovamente di separare la coppia per l’affetto che lo lega a Jang-hyun, visto come il suo salvatore idealizzato fin da bambino, scopriamo la sua storia e quella del protagonista stesso ma li vediamo anche in atteggiamenti di cameratismo con Goo Jam, (Park Kang-sub) e con Yang-chun che scopriamo esser stato l’uomo che ha accolto e cresciuto il trio, insegnando loro a combattere ma anche imparando da loro. E questa è la più grande differenza con Jang Cheol, il Maestro della scuola di confucianesimo che resta ancorato al passato, al proprio piccolo mondo antico, in cui è più importante il nome della propria famiglia che la giustizia. Come il Re Injo (Kim Jong-tae) che si scontra con il principe ereditario Sohyeon (Kim Moo-jun, Love All Play) perché è un re che ha paura di perder il proprio potere e preferisce vedere morire il popolo che perdere la propria faccia.
La figura del principe viene ribaltata completamente in questa stagione in cui lo si vede crescere come uomo che vede con i propri occhi la sua gente, il popolo Joseon, lavorare nei campi ridendo e cantando. S’intravede l’ombra di quello che sarebbe stato un re illuminato.
Ho amato questo drama, pur con i suoi piccoli difetti tipo gli episodi di amnesia. I suoi protagonisti valgono da soli la visione ma anche i personaggi secondari che acquistano spessore nel corso della storia e gli scontri generazionali che sono sempre attuali. Mi è piaciuto al punto che sono andata a recuperare la disciplina dell’istituto del divorzio in epoca Joseon, per capire quanto fosse effettivamente corretta la reazione dei mariti all’interno del drama; diciamo che era molto meglio per le donne divorziare in epoca Goryeo, quando si sarebbero potute rifare una vita rispetto all’epoca Joseon dove vedove e divorziate non potevano permettersi il lusso di innamorarsi nuovamente. Ma vale anche la pena evidenziare che il governo rifiutò le domande di divorzio avanzate dai mariti nei confronti delle donne liberate dai Qing, ritornate a casa dopo la guerra, vittime degli abusi dei vincitori.
E sono anche andata controllare quanta strada abbia effettivamente percorso Gil-chae e come lei tutti i prigionieri costretti a muoversi dalla Corea a Mukden, la capitale dell’impero Manciù (oggi Shenyang in Cina), un percorso che prevede almeno un mese di camminata.
Consiglio di recuperare questo drama che è stato capace di appassionarmi ed entusiasmarmi al punto da mettermi a fare ricerche storiche come non succedeva da tempo e che mi ha fatto sognare di poter esser forte come la sua protagonista, capace di sfidare il mondo con la sua forza e voglia di vivere.
Vi lascio con My Star di Kim Feel e vi aspetto qui e su IG con i commenti!
* questa recensione è stata pubblicata in precedenza su un’altra piattaforma e oggi è di nuovo online sul blog della sua autrice.
Lor
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